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Società di comodo interpello

I casi di accertamento relativi al regime delle società di comodo, prevalentemente società non operative (vale a dire con un ammontare dei ricavi inferiori a quelli ottenuti con il test di operatività). Interpello disapplicativo.

Società di comodo.

Ai sensi dell’art. 37-bis comma 8 del DPR 600/73, “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi.

A tal fine il contri buente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione”.

Il c.d. “interpello disapplicativo” consente quindi al contribuente che debba porre in essere un’operazione potenzialmente elusiva di chiedere alla DRE la rimozione degli effetti di una norma introdotta alla scopo di inibire determinati comportamenti.

 

Si stanno verificando nella pratica numerosi casi di accertamento relativi al regime delle società di comodo, prevalentemente relativi alle c.d. società non operative (vale a dire con un ammontare dei ricavi inferiori a quelli ottenuti con il test di operatività).

Il nodo cruciale, a nostro parere, è quello che ruota attorno all’istituto dell’interpello disapplicativo ed, in modo particolare, a due precise questioni:

1. opportunità di presentazione del medesimo (o, addirittura, obbligo);

2. strategie di gestione del diniego                                                                .

 

In relazione alla prima questione, opportunità di presentazione dell’interpello disapplicativo, dobbiamo riscontrare che la giurisprudenza sembra essersi consolidata sulla seguente posizione:

• l’interpello non rappresenta un obbligo, ma solo una opportunità a disposizione del contribuente;

• tale opportunità appare l’unica via per “uscire” in modo indenne dal regime delle società di comodo, escludendo qualsiasi pratica di accertamento;

• in mancanza di interpello, il contribuente conserva intatta ogni possibilità di difesa nella (eventuale) fase successiva del contraddittorio e dell’accertamento.

 

Il diniego dell’Agenzia, all’interpello disapplicativo, pone il contribuente in una posizione delicata, in quanto determina l’inserimento del nominativo nella lista dei soggetti non virtuosi e l’eventuale mancato adeguamento al regime in sede dichiarativa può innescare una sorta di controllo automatizzato.

 

Circa gli effetti della mancata presentazione, la recente Cassazione pone che la difesa del contribuente non può essere negata o limitata in conseguenza della mancata presentazione della domanda di interpello della disapplicazione della disciplina in tema di società non operative (Cass.15.7.2014 n.16183).
Il nostro ordinamento costituzionale è ispirato al principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), e impone di limitare al massimo le presunzioni assolute, contro le quali non è ammessa la prova contraria.
Per questo motivo, l'interpello "non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente".

 

L’omessa presentazione della domanda di interpello relativa alle società non operative non comporta la inammissibilità del successivo ricorso, per cui il contribuente, nonostante ciò, ben può dimostrare in giudizio che, nel caso in oggetto, sussiste la prova contraria che consente la disapplicazione del regime antielusivo. Questo è il principio che si desume dalla sentenza n. 16183/2014. In sostanza, i giudici affermano che la domanda di interpello “non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente”. Pertanto, si può dimostrare le ragioni che consentono di fornire la prova contraria, “dal momento che il principio di effettività di cui all’art. 53 Cost. impone di limitare nel più ristretto ambito le presunzioni juris et de iure”.

È lodevole il richiamo della sentenza n.16183/2014 al principio di effettività, specie in un contesto storico, come quello attuale, in cui si assiste ad un’ancestrale valorizzazione di meri aspetti formali, che finiscono con una vera e propria “distruzione” non solo della capacità contributiva, ma pure del diritto alla difesa (basti pensare alla questione, di recente rimessa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sull’impossibilità di riporto a nuovo del credito IVA non contestato derivante da una dichiarazione omessa). Nonostante la rinuncia al ricorso, la parte resistente è stata condannata alle spese, in virtù della c.d. “soccombenza virtuale”. La ratio decidendi seguita dai giudici, che si confida abbia seguito, è la seguente: dal momento che il contribuente fornisce la prova contraria, l’applicazione della normativa sulle società di comodo non ha più ragione di esistere. Così è, e così rimane anche senza interpello, posto che la nostra civiltà giuridica si basa su parametri costituzionali precisi, che vanno letti alla luce del criterio di effettività, caro alla giurisprudenza comunitaria. Detta decisione, più che lineare, alla luce del quadro giurisprudenziale vigente è tutt’altro che pacifica, nonostante l’art. 30della L. 724/94 dica espressamente che, ai fini delle società non operative, il contribuente “può” (e non “deve”, come stabilisce ad esempio l’art. 167 del TUIR per l’interpello “CFC”) presentare interpello disapplicativo. Ampio spazio alla prova contraria

Un chiaro esempio è la sentenza della Cassazione n. 8663/2011, ove, con un ragionamento ripreso in certi punti dalla giurisprudenza successiva, si sostiene che “la procedura autorizzativa non è in alcun modo surrogabile od eludibile, nel senso che la mancanza di determinazione favorevole impone indefettibilmente il rispetto della norma antielusiva e la sottoposizione agli effetti sfavorevoli che questa implica”.

Proprio questa tesi è stata accolta dalla Provinciale di Pisa (sentenza n. 437/1/14 del 2014), che ha ritenuto imprescindibile la domanda di interpello. Si finiva così con l’avallare l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, sconfessata dalle più recenti circolari, ove, al posto dell’inammissibilità del ricorso senza interpello, si è ritenuto di sanzionare il difetto di presentazione con l’art. 11 del DLgs. 471/97 (norma “tirata in ballo” indebitamente, siccome riguarda le omesse comunicazioni, fattispecie non paragonabile al mancato interpello). Si evidenzia che, sempre in tema di interpello, con le sentenze 17010/2012 e 11929/2014 si è superata la presa di posizione della Cassazione nella sentenza n. 8663/2011, secondo cui il ricorso contro il diniego di interpello sarebbe stato necessario: in base alle più recenti pronunce, se il contribuente non ricorre contro il diniego, troverà piena tutela in sede di impugnazione dell’accertamento, dell’atto di recupero del credito d’imposta o del diniego di rimborso. Ora, i giudici hanno fatto un passo in avanti, sancendo che la pienezza della difesa non viene meno neppure quando la presentazione dell’interpello è mancata.

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza 11929 depositata 28/5/14, ribadisce che il ricorso contro la risposta all’interpello della DRE è facoltativo, quindi la sua omissione non comporta nessuna conseguenza processualmente pregiudizievole per il contribuente.

La presentazione dell’interpello presentato per la disapplicazione del regime di cui all’art. 30 della L. 724/94 in tema di società non operative, posto che la domanda di interpello è inviata ai sensi dell’art. 37-bis comma 8 del DPR 600/73. I giudici richiamano, condividendola, la precedente pronuncia 17010/2012, e ritengono errata la presa di posizione espressa con la sentenza 8663/2011, che tanto ha fatto preoccupare i difensori. Accogliendo la tesi di quest’ultima sentenza, infatti, la risposta della DRE viene equiparata ad un diniego di agevolazione, atto non solo autonomamente ma anche necessariamente impugnabile, per cui l’omesso ricorso contro la risposta della DRE avrebbe comportato l’impossibilità di difesa nel merito nell’impugnazione contro l’atto successivo, sia questo un accertamento o un silenzio-rifiuto. In sostanza, il rapporto tra risposta della DRE e accertamento/diniego di rimborso è il medesimo che sussiste tra accertamento e cartella di pagamento. Non esaminata la questione sulla preventività che invece, con la sentenza 11929 si nega e si stabilisce che, siccome l’impugnabilità della risposta deriva dall’interpretazione estensiva dei provvedimenti impugnabili elencati nell’art. 19 del DLgs. 546/92, tramite interpretazione l’interprete non può introdurre nessuna decadenza. Quindi il ricorso contro la risposta della DRE è facoltativo, e se viene omesso nessuna limitazione nell’oggetto della difesa si potrà verificare in sede di ricorso contro l’atto successivo. Inoltre, viene riaffermato che la definitività della risposta della DRE, sancita dall’art. 1 comma 6 del DM 259/1998, postula solamente che essa non è suscettibile di ricorso gerarchico.

Alla luce di quanto illustrato, se sull’autonoma impugnabilità del diniego della DRE e sul carattere facoltativo del ricorso si ha, attualmente, una “copertura giurisprudenziale”, altrettanto non può dirsi in merito al requisito della preventività, comune secondo le Entrate a tutti gli interpelli.

Si veda la circolare 32/2010 § 5.2, ove si evidenzia come tale elemento sia da ricollegare al termine di presentazione della dichiarazione, rispetto al quale l’istanza di disapplicazione deve essere presentata in tempo utile.

Uno dei quesiti posti alla Cassazione riguardava proprio la validità di un interpello presentato tardivamente, che funga da “sanatoria” per le condotte pregresse, ma il quesito, per motivi processuali, non è stato esaminato.

 

La scelta della migliore strategia per la gestione del diniego, anche in questo caso frazionabile in due momenti:

• scelta del comportamento da tenere in dichiarazione, post diniego;

• scelta sulla impugnazione del diniego.

 

Partendo dalla seconda questione, che appare prioritaria, ci pare assolutamente consigliabile, anche se non obbligatorio, intraprendere la via dell’impugnazione.

Sulla fattibilità della impugnazione del diniego, forti del parere della Cassazione che si pone in modo assolutamente rigido sulla questione: il diniego è atto impugnabile nonostante il parere contrario dell’Agenzia.

Tuttavia, trattandosi di diniego di disapplicazione di una norma antielusiva, non sussiste alcun obbligo in tal senso e, per conseguenza, la mancata impugnazione non determina nemmeno il venir meno della possibilità di successiva difesa rispetto all’eventuale avviso di accertamento.

 

Se si condivide tale approdo (in verità ancora osteggiato a livello di merito da talune pronunce delle commissioni provinciali e regionali), non può non risultare pacifico che impugnare un atto che non incorpora nessuna pretesa sia certamente più agevole rispetto al contrasto ad un avviso di accertamento:

-        si potrà sostenere la propria difesa senza l’incubo dei pagamenti frazionati in pendenza di giudizio ed, ancora,

-        si potrà ottenere una pronuncia che imponga di considerare la posizione del contribuente come non patologica che, in linea di principio, potrebbe proprio sterilizzare anche l’emissione di un successivo avviso di accertamento.

Quindi, pur in mancanza di esperienza pratica al riguardo, essendo ancora “giovane” la normativa e pochi gli atti di opposizione che hanno raggiunto la conclusione in Cassazione, significa che si riesce a discutere della vicenda senza dover anticipare quattrini al fisco, con una tranquillità che certamente fa piacere al contribuente.

Relativamente a quale sia la Commissione Tributaria competente alla trattazione del processo si contrappongono due teorie:

• la prima, tendente a riservare la trattazione alla C.T.P. competente in ragione dell’Ufficio che potrà emettere l’avviso di accertamento;

• la seconda, invece, che riserva la competenza alla C.T.P. della D.R.E. che ha emesso il diniego.

 

La seconda soluzione è più corretta, C.T.P. della D.R.E. che ha emesso il diniego.

Possiamo anche contare sul fatto che un eventuale errore di commissione adita non determina decadenza, ma unicamente l’obbligo di riassumere la causa presso il giudice competente.

 

Deciso di impugnare il diniego, si tratta di decidere come comportarsi in dichiarazione.

Comportamento prudente è adeguarsi e richiedere la restituzione delle somme.

Più “aggressivo”, invece, non adeguarsi ed adottare regole di compilazione del quadro delle società di comodo della dichiarazione diverse.

Una è quella che segnala indicando come accolto l’interpello pur in presenza del diniego, certi di un accoglimento delle proprie doglianze, con la conseguenza che il contenuto del modello assume una importanza secondaria.

 

PROPOSIZIONE DELL'ISTANZA di INTERPELLO

L'art. 30 della L. 724/94 stabilisce che l'istanza di interpello per le società non operative va presentata secondo le forme del c.d. "interpello disapplicativo" di cui all'art. 37-bis del DPR 600/731.

Ai sensi dell'art. 1 co. 1 del DM 19.6.98 n. 259, l'istanza di disapplicazione delle norme antielusive, redatta in carta libera, deve essere:

-        rivolta al Direttore regionale delle Entrate competente per territorio;

-        indirizzata all'ufficio finanziario territorialmente competente per l'accertamento in ragione del domicilio fiscale del richiedente;

-        spedita in plico raccomandato con avviso di ricevimento (a titolo cautelativo, può essere opportuno utilizzare il plico senza busta).

A norma dell'art. 1 co. 5 del DM 19.6.98 n. 259, l'istanza si intende presentata all'atto della ricezione del plico raccomandato da parte dell'ufficio finanziario competente per l'accertamento. La circ. Agenzia delle Entrate 15.3.2007 n. 14 (§ 2) ha opportunamente precisato che l'istanza può anche essere consegnata direttamente all'ufficio territorialmente competente.

 

CONTENUTO DELLA DOMANDA

La richiesta di parere deve contenere, a norma dell'art. 1 co. 2 del DM 19.6.98 n. 259, e a pena di inammissibilità:

-        i dati identificativi del contribuente o del suo legale rappresentante;

-        l'indicazione dell'eventuale domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni;

-        la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante.

L'istanza deve, inoltre, contenere:

-        la descrizione esauriente e completa della fattispecie concreta per la quale il contribuente ritiene non applicabile la norma oggetto di istanza di disapplicazione;

-        l'indicazione della disposizione di legge di cui il contribuente chiede la disapplicazione;

-        le ragioni per le quali il contribuente ritiene che, nella fattispecie concreta, non possa ravvisarsi l'elusione, al cui contrasto sono preordinate le disposizioni delle quali chiede la disapplicazione.

L'art. 1 co. 3 del DM 19.6.98 n. 259 precisa, infine, che deve essere allegata alla richiesta di parere "copia della documentazione, con relativo elenco, rilevante ai fini della individuazione e qualificazione della fattispecie prospettata".

Appare opportuno allegare alla documentazione suddetta lo schema dei calcoli da effettuare per la determinazione dei ricavi e del reddito minimo (il prospetto dei quadri RF o RS della dichiarazione).(2)

 

Istanze inammissibili

Come sottolineato dalla circ. Agenzia delle Entrate 14.6.2010 n. 32 (§ 5), in linea generale, sono considerate inammissibili in via assoluta:

-        le istanze prive dei dati identificativi dell'istante e del suo legale rappresentante nonché mancanti della sottoscrizione;

-        le istanze presentate dai professionisti privi di procura;

-        le istanze presentate dai consulenti con riferimento a questioni prospettate da questi ultimi in maniera generale ed astratta;

-        le istanze che costituiscono mere reiterazioni di precedenti istanze ovvero richieste di riesame;

-        le istanze che interferiscono con l'esercizio dei poteri accertativi, riguardando fattispecie già sottoposte a controllo o per le quali siano state presentate istanze di rimborso o istanze di annullamento, anche parziale, in autotutela.

Ferme restando le predette ipotesi, tra le cause di inammissibilità dell'istanza di disapplicazione rientrano le istanze di interpello:

-        presentate dalle società non operative le quali beneficerebbero di una causa di esclusione automatica della relativa disciplina;

-        non sufficientemente circostanziate nella definizione della fattispecie concreta in relazione alla quale è richiesto il parere;

-        carenti del requisito di preventività.

Resta tuttavia impregiudicata la facoltà del contribuente di ripresentare l'istanza, sempre che ne sussistano tutti gli altri presupposti, fornendo quegli elementi utili la cui mancanza, nell'originaria istanza, ha comportato la pronuncia di inammissibilità.

 

COMUNICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO AL CONTRIBUENTE

Ai sensi dell'art. 1 co. 4 e 6 del DM 19.6.98 n. 259, le determinazioni del Direttore regionale delle Entrate sono comunicate al contribuente non oltre 90 giorni dalla presentazione dell'istanza, mediante plico raccomandato A/R. Il provvedimento direttoriale è da ritenersi definitivo, quindi non suscettibile di ricorso gerarchico. Al fine di rispettare tale termine, l'ufficio finanziario trasmette l'istanza al Direttore regionale delle Entrate entro trenta giorni dalla ricezione della stessa, unitamente al proprio parere. Le comunicazioni relative all'istanza e le richieste istruttorie si intendono eseguite all'atto della ricezione del plico raccomandato da parte del destinatario (3).

Modifiche della L. 244/2007

La L. 244/2007 ha inserito nell'art. 30 della L. 724/94 il nuovo co. 4-quater, ai sensi del quale le risposte delle DRE sono comunicate al contribuente anche a mezzo fax o posta elettronica.

 

IMPUGNAZIONE DELLA RISPOSTA

La giurisprudenza della Corte di Cassazione sembra ormai consolidata nel senso di ritenere autonomamente impugnabili le risposte rese a seguito di interpello, nonostante, in sede di merito, alcune Commissioni, anche recentemente, continuino ad esprimersi in senso opposto (C.T. Prov. Brescia 18.6.2013 n. 47/2/13 e C.T. Reg. Bari 7.10.2013 n. 75/5/13).

Nello specifico, ciò vale per l'interpello disapplicativo, perciò per quello richiesto ai sensi dell'art. 37-bis co. 8 del DPR 600/73 e, quindi, dell'art. 30 co. 4-bis della L. 724/94 in tema di società non operative (6).

Il motivo per cui le risposte sono state ritenute ricorribili è rinvenibile nel fatto che esse non sono, come invece sostenuto dall'Agenzia delle Entrate, un semplice parere interlocutorio, ma atti espressione di una pretesa impositiva definita (7).

Esse possono essere viste come atti che autorizzano il contribuente a porre in essere la condotta fiscale evidenziata nell'interpello, tant'è che, come si evidenzierà, la previa domanda di interpello è considerata obbligatoria, sicchè la sua mancata presentazione ben può comportare la lesione della difesa nel ricorso contro il successivo accertamento.

Dal punto di vista tecnico-processuale, le ragioni che hanno spinto la giurisprudenza a dichiarare la ricorribilità delle risposte sono sostanzialmente due:

-        esse possono ritenersi un diniego di agevolazione, atto autonomamente impugnabile ai sensi dell'art. 19 co. 1 lett. h) del DLgs. 546/92 (Cass. 15.4.2011 n. 8663), o

-        come atto prodromico impugnabile solo mediante un'interpretazione estensiva dell'elenco contenuto nell'articolo richiamato, nel qual caso si applicherebbe la teoria della c.d. "impugnazione facoltativa" (Cass. 5.10.2012 n. 17010).

Si anticipa da subito che l'accoglimento dell'una piuttosto che dell'altra teoria comporta precise conseguenze in merito agli effetti dell'omesso ricorso contro la risposta dell'Agenzia delle Entrate.

Il ricorso contro il diniego di disapplicazione pone alcune problematiche di natura strettamente processuale, e la più rilevante è quella relativa all'individuazione del legittimato passivo.

Inammissibilità dell'interpello

La Corte di Cassazione ha stabilito che la risposta all'interpello non può essere impugnata se consiste in una dichiarazione di inammissibilità dello stesso (Cass. 13.4.2012 n. 5843).

Nell'ipotesi esaminata nella pronuncia, sembra difettasse, nella domanda avanzata dal contribuente, la descrizione della fattispecie.

Detta soluzione, invero, deve essere puntualizzata. La dottrina ha infatti affermato che ciò non può ritenersi valido qualora l'inammissibilità dell'istanza di interpello precluda al contribuente, almeno per l'annualità in esame, la possibilità di ripresentazione della domanda completa, "a causa della sopravvenuta non tempestività della nuova istanza, per avvenuto decorso del termine di presentazione della dichiarazione, o, nel caso di adesione all'interpretazione ministeriale, del novantesimo o centoventesimo giorno antecedente allo stesso" (8.)

Peraltro, conscia di tali critiche, alcuna giurisprudenza di merito ha affermato l'impugnabilità della risposta, sebbene la domanda fosse stata ritenuta inammissibile per carenza di documentazione (9.)

 

ENTE IMPOSITORE DA CITARE IN GIUDIZIO

L'istanza di interpello disapplicativo e, di conseguenza, quella sulle società non operative sono proposte alla Direzione provinciale di domicilio fiscale del contribuente,  ma rivolte alla DRE.

In entrambi i casi sorge il dubbio circa il soggetto da citare in giudizio, quindi l'ente cui il ricorso deve essere notificato. I dubbi nascono in primo luogo dal fatto che nel procedimento di interpello sono coinvolti due soggetti (la DRE e la Direzione provinciale), e in secondo luogo in quanto non è chiaro se la DRE, al di fuori delle materie in cui la sua competenza è espressamente attribuita dalla legge, possa o meno acquisire la qualità di parte processuale.

La giurisprudenza di merito, allo stato attuale, si è espressa in senso esattamente opposto, sostenendo che la legittimazione passiva spetta alla DRE in quanto è tale organo che fornisce la risposta (10), e, nel contempo, che spetta alla Direzione provinciale per varie ragioni, individuabili nel fatto che quando il legislatore ha voluto attribuire la legittimazione processuale alla DRE lo ha fatto espressamente, e non è il caso degli interpelli (11), che gli artt. 4 e 10 del DLgs. 546/92 non fanno mai riferimento alla DRE ma all'ufficio del Ministero delle Finanze e/o all'ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso (C.T. Prov. Lecce 15.4.2008 n.93/5/08), e ancora sul fatto che la domanda di interpello viene proposta non alla DRE ma alla Direzione provinciale (C.T. Reg. Bari 16.1.2012 n. 1/22/12).

Tale situazione impone di porre in essere una condotta processuale ispirata alla massima cautela, il che significa che il contribuente deve notificare il ricorso sia alla DRE sia alla Direzione provinciale, eliminando alla radice il rischio di eccezioni di inammissibilità.

Ove il contribuente avesse già notificato il ricorso ad un solo soggetto e, per questo motivo, nelle controdeduzioni il resistente abbia sollevato l'inammissibilità, può, come strategia residuale, essere richiamata una certa giurisprudenza, che, in casi simili, aveva affermato che, nel caso delle Agenzie fiscali, l'errore sul legittimato passivo non comporta l'inammissibilità del ricorso (12).

 

COMPETENZA DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA

L'errore sulla competenza del giudice non comporta effetti irreversibili quali l'inammissibilità del ricorso, come espressamente prevede l'art. 5 del DLgs. 546/92. Per questo motivo, nel momento in cui il contribuente ha notificato il ricorso sia alla DRE che alla "propria" Direzione provinciale, non rischia la perdita del diritto di azione se, "a cascata", si costituisce in giudizio presso un giudice non competente.

Tale norma enuncia il principio della c.d. "translatio iudicii", secondo cui ove la parte abbia adito il giudice incompetente questi rimette le parti dinanzi al giudice da lui indicato competente.

La competenza del giudice, ai sensi dell'art. 4 del DLgs. 546/92, è legata all'ente che ha emesso l'atto impugnato, che, nel nostro caso e fermo restando quanto sopra esposto, sembra essere la DRE.

Per questo motivo, il contribuente dovrebbe sempre depositare il ricorso presso la Commissione tributaria provinciale sita nel capoluogo di Regione (ad esempio se la risposta proviene dalla DRE Lombardia, il ricorso andrà depositato presso la C.T. Prov. Milano).

Ora, nessun problema sorge se il domicilio fiscale del contribuente, nell'esempio riportato, fosse proprio a Milano.

Se, invece, egli avesse il domicilio fiscale a Brescia, potrebbe, in virtù di quanto esposto, "scegliere" il giudice presso cui effettuare la costituzione in giudizio, tra la C.T. Prov. Milano e la C.T. Prov. Brescia.

Ipotizzando che il legittimato passivo debba essere la sola DRE, come detto il ricorso andrebbe notificato alla DRE Lombardia e alla Direzione provinciale di Brescia, e la costituzione in giudizio dovrebbe avvenire presso la C.T. Prov. Milano.

Così, la C.T. Prov. Milano, se ritiene sussistente la sola legittimazione processuale della DRE e, "a cascata", la propria competenza, estromette dal giudizio la Direzione provinciale di Brescia ed esamina il ricorso.

Qualora, invece, i giudici non condividessero l'operato del contribuente ritenendo sussistente la sola legittimazione processuale della Direzione provinciale, non potrebbero dichiarare alcuna inammissibilità, in quanto il contribuente ha chiamato in causa entrambi i soggetti.

Applicando l'art. 5 del DLgs. 546/92, la C.T. Prov. Milano dichiarerà quindi con sentenza la propria incompetenza territoriale, disponendo la translatio iudicii a favore della C.T. Prov. Brescia entro un termine da essa stabilito o, in mancanza, entro sei mesi dalla data di comunicazione del dispositivo della sentenza con cui è stata rilevata l'incompetenza territoriale (in questi termini, sostanzialmente, C.T. Prov. Vicenza 3.5.2013 n. 81/6/13).

Fatto ciò, il contribuente, entro il termine indicato, che è decadenziale, deve riassumere il processo notificando l'atto di riassunzione (che di fatto ha le forme del ricorso) al soggetto legittimato (nel nostro caso alla Direzione provinciale di Brescia) e, nei trenta giorni successivi, provvedendo alla costituzione in giudizio presso la C.T. Prov. Brescia.

 

EFFETTI DELL'INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO

L'inammissibilità del ricorso di primo grado determina la c.d. "cristallizzazione della pretesa", nel senso che l'atto impugnato, essendo uscito dal circuito processuale, diviene definitivo: nel nostro caso, pertanto, il diniego di disapplicazione è da ritenersi non più contestabile.

L'effetto di ciò, a nostro avviso, è strettamente legato alla tesi che si intende accogliere circa la necessità o meno della preventiva impugnazione della risposta.

In altri termini, se si opta per la tesi della c.d. "impugnazione facoltativa", la sentenza che dichiara l'inammissibilità del ricorso non scende ad esaminare il merito della causa, quindi è come se il contribuente non avesse presentato il ricorso.

Per questo motivo, egli potrà, ricevuto l'avviso di accertamento, ricorrere o presentare reclamo contestando il merito della pretesa.

Per contro, se si intende optare per la necessità del ricorso contro la risposta, l'inammissibilità dovrebbe impedire che, nel ricorso contro il successivo accertamento, il contribuente possa ancora sindacare il merito della pretesa, in quanto il diniego sarebbe ormai definitivo a tutti gli effetti.

Nella nostra fattispecie, oltre alle consuete cause di inammissibilità previste dall'art. 22 del DLgs. 546/92, acquista particolare rilievo il difetto di legittimazione passiva del resistente.

 

RECLAMO / MEDIAZIONE

Per effetto dell'art. 17-bis del DLgs. 546/92, avverso tutti gli atti emessi dall'Agenzia delle Entrate di valore non superiore a 20.000,00 euro è necessario, in luogo del ricorso, presentare apposito atto di reclamo.

Il reclamo è strumentale all'annullamento parziale/totale dell'atto e/o alla definizione della lite mediante mediazione, nel qual caso le sanzioni sono ridotte al 40%.

Relativamente all'operatività dell'art. 17-bis del DLgs. 546/92, si è dell'avviso che il reclamo non sia necessario, per le ragioni seguenti.

Il reclamo postula, come detto, il valore della lite sino a 20.000,00 euro, e ciò, di conseguenza, presuppone che si possa determinare il valore della causa, ai sensi dell'art. 12 co. 5 del DLgs. 546/92, che richiama l'importo del tributo richiesto nell'atto impugnato.

Nel caso di specie, non vi è un tributo richiesto, che vi sarà nel successivo accertamento, ove di certo emergerà la necessità o meno del reclamo (15).

L'Agenzia delle Entrate non si è ancora espressa sulla questione, anche se, con la circ. 24.10.2011 n. 48 (§ 4.7), era stato specificato, in relazione alla definizione delle liti pendenti ex art. 39 co. 12 del DL 98/2011 circoscritta alle cause di valore sino a 20.000,00 euro, che la lite sul diniego di agevolazione senza alcuna richiesta di maggiore imposta non sarebbe stata sanabile, stante l'impossibilità di calcolare il valore della lite.   Tralasciando il carattere indeterminabile del valore della lite, a nostro avviso non sarebbe nemmeno possibile quantificare il valore parametrandolo al successivo accertamento, siccome al contribuente non è dato sapere né se l'accertamento verrà emesso né la "strategia procedimentale" che sarà utilizzata dall'Agenzia delle Entrate. Essa ben potrebbe emettere un atto per IRPEF, IVA e IRAP, oppure tre atti distinti, il che avrebbe inevitabilmente riflesso sul valore della lite e, di conseguenza, sulla necessità del reclamo. Tali argomentazioni appaiono sufficienti per sostenere la diretta ricorribilità della risposta all'interpello (16).  Rimane ferma, in presenza del valore dell'atto sino a 20.000,00 euro, la necessità del reclamo per l'avviso di accertamento emesso come conseguenza della mancata conformazione del contribuente alla risposta resa a seguito dell'interpello, a prescindere dal fatto che questa sia stata impugnata. Si evidenzia, comunque, che, a decorrere dagli atti notificati dal 3.3.2014, operano le modifiche apportate all'art. 17-bis del DLgs. 546/92 dalla L. 147/2013, per cui l'eventuale "salto" della fase di mediazione non causa più l'inammissibilità del ricorso, ma la semplice improcedibilità (17).

 

CONTRIBUTO UNIFICATO ATTI GIUDIZIARI

Una volta notificato il ricorso contro il diniego di disapplicazione, il contribuente, prima della costituzione in giudizio, deve pagare il contributo unificato.  Per ciò che riguarda la debenza del menzionato contributo, essa dovrebbe essere di euro 120,00, cifra prevista dall'art. 13 co. 6-quater del DPR 115/2002 per le cause di valore indeterminabile. La tesi esposta trova un'indiretta conferma ufficiale, in quanto il Ministero delle Finanze ha optato per la debenza del contributo in tale misura nel caso del diniego di iscrizione all'Anagrafe delle ONLUS (circ. Min. Economia e Finanze 21.9.2011 n.1), ipotesi assimilabile all'interpello, quantomeno sotto il profilo del valore della lite.

 

RAPPORTI CON IL SUCCESSIVO AVVISO DI ACCERTAMENTO

Il problema maggiormente sentito concerne la necessità o meno del ricorso contro la risposta resa dall'Agenzia delle Entrate. La Corte di Cassazione, allo stato attuale, si è espressa in senso discordante, sostenendo, nello stesso tempo, che l'omesso ricorso contro la risposta impedisce, nel ricorso contro il successivo accertamento, di sindacare il merito della pretesa e che il contribuente, omettendo di impugnare la risposta, non subisce alcuna limitazione nell'oggetto della difesa nel ricorso contro l'atto accertativo.

Premesso che l'accoglimento dell'una piuttosto che dell'altra teoria ha un impatto operativo enorme, attualmente è bene che i difensori, per prudenza, presentino sempre e comunque tempestivo ricorso contro la risposta resa a seguito dell'interpello.

A prescindere dalla teoria che si intende fare propria, occorre poi delineare i nessi, dal punto di vista processuale e della riscossione in pendenza di giudizio, che sussistono tra processo contro il diniego di disapplicazione e ricorso contro il successivo accertamento.

 

OMESSO RICORSO CONTRO LA RISPOSTA ALL'INTERPELLO

In un primo momento, la Corte di Cassazione, con la sentenza 15.4.2011 n. 8663, ha stabilito che il diniego è un atto impugnabile, siccome rientra nel novero dei dinieghi di agevolazione, provvedimenti definiti impugnabili dall'art. 19 co. 1 lett. h) del DLgs. 546/9218.

Poi, i giudici hanno enunciato i seguenti principi:

-        la situazione giuridica soggettiva del contribuente è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo, con la conseguenza che il giudice tributario, investito del ricorso contro il diniego, non deve limitarsi ad annullare o confermare l'atto per questioni di legittimità, ma  deve esaminare nel merito la pretesa, quindi sindacare la sussistenza o meno delle condizioni di applicabilità della disciplina sulle società non operative;

-        la mancata impugnazione del diniego decorrente dalla sua comunicazione "rende definitiva la carenza di potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all'istante", per cui la natura non elusiva della fattispecie non potrà più essere sindacata successivamente, ad esempio, aggiungiamo noi, nel ricorso contro l'avviso di accertamento.

Detta impostazione è stata ribadita da Cass. 13.4.2012 n. 5843, ove, tuttavia, è stato sostenuto che l'impugnabilità è esclusa ove la DRE, senza esaminare il merito, abbia dichiarato inammissibile l'istanza.

Ad avviso della Corte di Cassazione, tra diniego di disapplicazione e successivo avviso di accertamento vige il principio di autonomia degli atti impugnabili, secondo cui, ex art. 19 del DLgs. 546/92, ogni provvedimento può essere impugnato solo per vizi propri (19.)

Come conseguenza, se il contribuente presenta l'istanza e riceve un parere negativo, a differenza di quanto sostenuto dall'Agenzia delle Entrate:

-        l'impugnazione del diniego si profila necessaria;

-        la mancata impugnazione del diniego rende impossibile sindacare, in sede di ricorso contro il successivo accertamento, la presenza delle condizioni di applicabilità della disciplina delle società non operative.

Si evidenzia che alcuna giurisprudenza di merito, richiamando tale orientamento della Cassazione, ha precluso la difesa in caso di omessa impugnazione del diniego (C.T. Prov. Verbania 14.2.2012 n. 18/1/12).

Detta impostazione è stata in parte modificata da Cass. 5.10.2012 n. 17010, ove i giudici, ribadendo l'impugnabilità della risposta della DRE (20), hanno però negato che si tratti di un diniego di agevolazione, ma piuttosto di un atto che, in un certo senso, "autorizza" la disapplicazione (21.)

L'autonoma impugnabilità del provvedimento deriva dalla necessità di interpretare l'art. 19 del DLgs. 546/92 in senso estensivo, e da ciò consegue che il contribuente "può" ma non "deve" presentare ricorso, sicchè la mancata impugnazione della risposta non comporta alcuna limitazione nell'oggetto della difesa nel ricorso contro il successivo accertamento.

Il ragionamento prende le mosse dal fatto che se, a differenza della sentenza 8663/2011, si afferma che l'atto è impugnabile non in quanto previsto dalla legge ma in forza di un'interpretazione estensiva, mediante tale interpretazione non è possibile introdurre alcun tipo di decadenza, il che avverrebbe se si sostenesse l'assoluta necessità del ricorso.

Detto diversamente, se si trattasse di diniego di agevolazione, allora si potrebbe affermare che tra tale atto e il successivo accertamento operi la c.d. "autonomia degli atti impugnabili" ex art. 19 co. 3 del DLgs. 546/92, ma ciò non può essere esteso al caso degli atti non ricompresi nell'elenco contenuto nell'ultima norma citata.

In pratica, viene richiamata la c.d. "impugnazione facoltativa" (22), espressa dalla Corte in altre occasioni, concernenti la facoltà di impugnazione degli atti "interlocutori" in comparti impositivi minori come per i contributi consortili, o nella fiscalità locale prima della riforma della L. 296/2006 (cfr., ad esempio, Cass. 8.10.2007 n. 21045).

 

Omessa risposta dell'Agenzia delle Entrate all' interpello

La disciplina istitutiva dell'interpello prevede talvolta che il silenzio serbato dall'Amministrazione a fronte della domanda del contribuente abbia valore di "silenzio-assenso", come nel caso dell'interpello "ordinario" ex art. 11 della L. 212/2000.

Nel momento in cui si intende optare per la tesi di Cass. 8663/2011, ne dovrebbe a nostro avviso derivare che il silenzio dell'ufficio a fronte della domanda di interpello abbia sempre valore di "silenzio-assenso", anche qualora la norma non lo preveda, come nell'ipotesi dell'interpello ex art. 37-bis co. 8 del DPR 600/73. Ciò in quanto se al contribuente viene addossato un vero e proprio onere di impugnazione della risposta, deve del pari essere attribuito un valore giuridico al silenzio, pena un'evidente disparità di trattamento.

Dal punto di vista tecnico, è però difficile delineare il momento in cui tale silenzio deve ritenersi formato, siccome né l'art. 11 della L. 212/2000 né l'art. 21 del DLgs. 546/9223 sembrano potersi applicare analogicamente al caso di specie.

Invero, si potrebbe fare riferimento all'art. 20 co. 1 della L. 241/90 sul procedimento amministrativo, con la conseguenza che il "silenzio-assenso" dovrebbe formarsi decorsi 90 giorni dalla richiesta del contribuente (24).

 

NESSI TRA RICORSO AVVERSO IL DINIEGO E CONTRO L'ACCERTAMENTO

Una volta appurato che il diniego di disapplicazione rientra nel novero degli atti impugnabili in Commissione tributaria, occorre esaminare i nessi che intercorrono tra il ricorso contro il diniego e il ricorso contro il successivo accertamento.

Tra i due atti vige un rapporto di pregiudizialità, nel senso che dalle "sorti" del ricorso contro il diniego dipendono quelle dell'accertamento, poiché, come detto dalla Corte di Cassazione, il sindacato del giudice investito del ricorso contro il diniego non è circoscritto alla legittimità, ma deve estendersi al merito della pretesa.

Per questo motivo, il raccordo tra i due processi potrà essere effettuato mediante la riunione dei giudizi, ove possibile (25), oppure tramite richiesta di sospensione del processo (26.)

Ipotizziamo che si presenti ricorso contro la risposta, e che si formi il giudicato della Commissione tributaria: in tal caso, non ci sono problemi, se il giudice ha accolto il ricorso nessun accertamento può essere emesso (27).

Oltre a ciò, dovrebbe essere possibile sostenere che, dal momento che il contribuente impugna la risposta sindacando il merito, il vaglio sulla legittimità della pretesa non potrà essere esperito nuovamente nel ricorso contro l'accertamento.

L'assunto deriva dal fatto che nel ricorso contro il diniego si discute sull'applicabilità o meno della disciplina sulle società non operative, e tale discussione non potrà essere reiterata nel ricorso contro l'accertamento, impugnabile a questo punto solo per vizi propri, pena una duplicazione della difesa (28.)

A meno che, ovviamente, l'accertamento non contenga motivi diversi o ulteriori rispetto al diniego, nel qual caso, a nostro avviso, esso dovrebbe di per sé essere nullo (29.)

Un altro problema riguarda la fattispecie in cui non ci sia il giudicato contro il diniego: in genere, il contribuente impugna subito il diniego e magari non si adegua in dichiarazione e, per questo motivo, a distanza di qualche anno verrà emanato l'accertamento.

Il processo contro il diniego, specie se si giunge in sede di legittimità, non terminerà di certo prima della notifica dell'accertamento.

Premesso ciò, nonostante nelle due fasi di merito il giudice abbia dato ragione al contribuente, l'Agenzia delle Entrate non può omettere la notifica dell'accertamento, visto che essa è ancorata ai termini decadenziali dell'art. 43 del DPR 600/73, anche se, nel contempo, la legittimità dell'accertamento dipende dal diniego.

Per questo motivo, sembra potersi sostenere che l'accertamento non solo possa, ma debba essere emanato (30), ma che, se si fosse già in presenza di una sentenza di accoglimento del ricorso contro il diniego, ancorché appellata od oggetto di ricorso per Cassazione, nessuna riscossione a titolo provvisorio possa essere disposta (31).

Ciò deriva dal fatto che l'accertamento è soggetto a termini decadenziali legati alla dichiarazione e non al carattere definitivo del diniego, quindi c'è urgenza nel notificarlo, mentre l'atto esecutivo no (si tratterà quasi sempre di accertamenti esecutivi, e l'espropriazione dovrà iniziare entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di definitività dell'accertamento a pena di decadenza, il che sta a significare che la postergazione della riscossione non va, dal punto di vista dei termini, a danno dell'ufficio, ma questo aspetto meriterebbe ulteriori approfondimenti (32).

 

LIQUIDAZIONE AUTOMATICA (ILLEGITTIMITÀ)

Dopo la risposta negativa dell'Agenzia delle Entrate, o in assenza di interpello del contribuente, il mancato adeguamento alla disciplina sulle società non operative deve essere contestato mediante accertamento e mai con cartella di pagamento a seguito di controllo automatico ex art. 36-bis del DPR 600/73.

La giurisprudenza si è di recente occupata di interessanti questioni, suscettibili di verificarsi con una certa frequenza nella prassi.

Si pensi al caso di un contribuente che, avendo ricevuto la risposta negativa all'interpello, sebbene non intenda adeguarsi abbia compilato il prospetto del quadro RF sulla determinazione del reddito minimo ma poi non abbia riportato i relativi dati nel quadro RN.

In questa ipotesi, nonostante vi sia una discordanza tra i due quadri della dichiarazione astrattamente suscettibile di far scattare il controllo automatico, l'Agenzia delle Entrate deve procedere con accertamento, perché in sede di controllo automatico può esserci il semplice errore risultante ictu oculi dalla dichiarazione, e mai una valutazione giuridica sulle scelte del contribuente (C.T. Prov. Torino 30.1.2012 n. 16/1/12).

Inoltre, non ha alcun rilievo il fatto che il contribuente non abbia indicato nessuna causa di esclusione dalla disciplina sulle società non operative, siccome l'aver presentato l'interpello è già indice del fatto che egli non aveva intenzione di adeguarsi (cfr. C.T. Prov. Torino 7.2.2012 n. 17/8/12).

Tanto premesso, è opportuno che il contribuente, in queste situazioni, ometta del tutto di compilare il suddetto prospetto, in modo da eliminare alla radice il problema.

La giurisprudenza è giunta a conclusioni diverse in un caso in cui il contribuente non aveva presentato l'istanza e, come detto, nel quadro RN non erano stati riportati i dati indicati nel quadro RF (C.T. Prov. Torino 27.3.2012 n. 40/8/12).

In realtà, quando il contribuente contesta l'applicabilità dell'art. 30 della L. 724/94, a noi sembra che non si possa mai rientrare nell'ambito del controllo automatico, in quanto sono necessarie valutazioni giuridiche sull'operato del contribuente (33).

 

OMESSA PRESENTAZIONE DELL'INTERPELLO

In base al costante orientamento dell'Agenzia delle Entrate, l'invio della domanda di interpello è obbligatoria, sicchè la sua mancata presentazione comporterebbe l'impossibilità di contestare il merito nel ricorso contro il successivo accertamento (o meglio, come sostenuto dall'Agenzia delle Entrate con un'affermazione poi sconfessata, l'inammissibilità del ricorso) (34.)

Nonostante, a prima vista, tale orientamento desti forti perplessità in quanto le cause di inammissibilità del ricorso possono essere stabilite solo dal legislatore, deve ammettersi che esso è coerente con quanto sancito da Cass. 8663/2011. In altri termini, nel momento in cui si sostiene che il contribuente non solo possa ma debba ricorrere contro il diniego, dovrebbe di conseguenza sostenersi che egli, del pari, sia tenuto a presentare la domanda di interpello.

Alcuna giurisprudenza di merito, che, per quanto ci consta, appare allo stato attuale isolata, si è già espressa in tal senso (C.T. Prov. Genova 12.3.2012 n. 47/12/12).

La questione, a ben vedere, non muterebbe neanche se si facesse proprio l'orientamento della successiva sentenza della Cass. 17010/2012, che ritiene non imprescindibile il ricorso contro il diniego.

Infatti, sia la sentenza 8663/2011 che la 17010/2012 hanno affermato che il contribuente non può, autonomamente, disapplicare la norma antielusiva posta dal legislatore, e da ciò sembra potersi dedurre l'obbligatorietà dell'istanza (35).

A nostro avviso, comunque, in un ordinamento giuspositivista come il nostro non è possibile prescindere dal dato normativo: pertanto, l'istanza può essere considerata obbligatoria solo ove la legge lo preveda, quindi per l'interpello "disapplicativo" e per l'interpello "CFC", ma non nel caso delle società non operative, ove il legislatore, a differenza di quanto specificato negli artt. 37-bis co. 8 del DPR 600/73 e 167 del TUIR, ha esplicitamente affermato che il contribuente "può" (e non "deve") presentare l'istanza (36.)

Strettamente connesso al problema evidenziato risulta essere il "momento procedurale" in cui il contribuente può fornire la prova contraria.

Optando per l'obbligatorietà della domanda di interpello, ne dovrebbe derivare che la prova deve necessariamente essere fornita nelle more di tale procedura, o unitamente all'istanza oppure a seguito di richiesta di integrazione dei documenti proveniente dall'ufficio, ma, come sostenuto in dottrina, una preclusione probatoria del genere può provenire solo dal legislatore (37.)

 

CARATTERE PREVENTIVO DELLA DOMANDA DI INTERPELLO

L'Agenzia delle Entrate ha affermato che la domanda di interpello deve essere preventiva, nonostante  non vi sia, almeno per il caso delle società non operative, un dato normativo in tal senso.

La circ. 32/2010 (§ 5.2) precisa infatti come tale elemento sia da ricollegare al termine di presentazione della dichiarazione, rispetto al quale l'istanza di disapplicazione deve essere presentata in tempo utile.

Ne risulta che le istanze di disapplicazione della disciplina delle società non operative, per le quali il comportamento rilevante ai fini dell'interpello trova attuazione nella dichiarazione dei redditi, devono essere presentate 90 giorni prima della scadenza del termine ordinario della predetta dichiarazione (38).

Con riferimento al periodo d'imposta 2013, quindi, l'istanza deve essere presentata entro il 2.7.2014 (novanta giorni prima del 30.9.2015, termine per la presentazione di UNICO 2015).

La giurisprudenza occupatasi del tema ha però affermato che se può concordarsi sul fatto che la domanda, concernendo una condotta che dovrà essere tenuta dal contribuente in sede di dichiarazione, debba essere preventiva, non è possibile che vengano introdotti termini decadenziali dalla prassi amministrativa che non è fonte del diritto, perciò è da ritenersi valida la domanda presentata, nella specie, 48 giorni prima del termine ultimo per la dichiarazione (39.)

 

CONSEGUENZE SANZIONATORIE DELLA MANCATA PRESENTAZIONE

L'Agenzia delle Entrate ritiene che l'omessa presentazione della domanda di interpello cagioni le sanzioni di cui all'art. 11 del DLgs. 471/97 da euro 258,00 ad euro 2.065,00 per l'omissione di ogni comunicazione prescritta dalla legge tributaria (40.)

Detto orientamento è censurabile, siccome l'istanza di interpello, visto il principio di tassatività delle sanzioni amministrative, non può essere considerata una comunicazione, e, inoltre, la sua presentazione non è un obbligo ma una facoltà, come prevede l'art. 30 della L. 724/94, ove è stabilito che l'istanza "può" essere presentata, a differenza, ad esempio, dell'interpello "CFC", ove la domanda, ai sensi dell'art. 167 del TUIR, "deve" essere presentata.

 

 

 

Art. 30 - Società di comodo. Valutazione dei titoli (1) (2)

1.
 

Agli effetti del presente articolo le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano [...] (3) non operativi se l'ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali: 
a) il 2 per cento al valore dei beni indicati nell'articolo 85, comma 1, lettere c),&

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